Sono una sorta di accumulatore seriale, io mi giustifico dicendo di avere un animo da collezionista, ma poi analizzo il fatto di non prendermi (o dire di non potermi prendere) il tempo di sistemare ciò che accumulo (o leggere tutto ciò che compro), quindi capisco di potermi definire soltanto un accumulatore seriale. La mia casa, come la mia testa e come molti altri aspetti della mia vita, ne è un esempio.
Sono un accumulatore seriale di minchiate, per esempio. Se guardo un film o una serie, tendo spesso a ricordarmi dei particolari o delle battute inutili o stupide, rapporto quasi tutto ciò che accade nella vita a Clerks, a un qualche cartone animato o a battute di stand-up comedian.
Sono un accumulatore seriale di magliette, con lo scopo finale di arrivare ad averne una per ogni giorno dell’anno (credo di non essere troppo lontano, e questo non sapere quante ne ho, è ciò che mi distingue da un vero collezionista).
Sono un accumulatore seriale di tante altre cose, ma una di esse mi ha dato da pensare, ultimamente: le tazze.
Non bevo caffè, ma adoro il rito del thè, l’attesa, l’attesa, il tenerlo al mio fianco mentre leggo, mentre ascolto, mentre si chiacchiera, mentre si resta in attesa. Ho una tazza bianca fuori e azzurra dentro, da 1 euro o giù di lì, che uso sempre e che non ho mai scheggiato o rotto nei più di 15 anni di “servizio”. Ho una tazza degli Weezer (la mia band preferita) che ho pagato 15 euro e rotto prima ancora di poterla usare. Ho una tazza di Ani DiFranco, sempre pronta, ma che non muovo mai da lì, che ha una storia piccola che mi tengo dentro e ogni volta che vedo qualcuno maneggiarla, mi sembra sempre che possa distruggerla in qualsiasi modo e momento (la storia, oltre che la tazza).
E poi ho la tazza che mi ha fatto ragionare sul mio accumulare.
Ci son cose e persone che io sento così mie, così fondamentali e su cui conto così tanto, da darle per scontate e non accorgermi di quanto, in realtà, siano preziose; ci sono cose e persone che io avvicino, tengo strette, ammiro e custodisco, che ho paura di rovinare con l’uso, ma che, in realtà, sono “solo” delle tazze, uguali a tutte le altre.
Ci sono cose e persone che sfrutto ogni giorno e a cui non faccio capire quanto, in realtà, contino (perché, appunto, accumulo tempo e attese e ascolti, insieme e grazie a loro) e ci sono cose e persone che avvicino, ammiro e custodisco in me, ma che metto via, senza mai prendermi il tempo di godermi, oppure che tratto con maggiore cura o rispetto, quando in realtà non fanno altro che prender polvere nella memoria.
E, come sempre, la mia reazione è chiedere scusa… ovviamente.
Mi spiace essere quello che dà per scontate cose o persone, come mi spiace non esserci mai per costruire nuovi secondi con chi ammiro e porto con me.
E tutto questo rovello lo devo a una tazza, ma, soprattutto, a quel che c’è su quella tazza. Qualche tempo fa l’ho messa su instagram chiedendo se qualcuno conoscesse autore e significato di quel simbolo.
Ecco, come spesso accade, chi mi spiega le cose è Kurt Vonnegut Jr., quell’”asterisco” che appare sulla tazza, lui, lo spiega così:
“Uno dei modi in cui uno scrittore può regredire e può lasciarsi andare veramente è quello tradizionale dei bambini. Quello di parlare della pipì e della cacca. Allora io vi faccio vedere com’è fatto il mio buco del culo”
Sono il primo a detestare e combattere le sovrastrutture, ma sono il primo anche nel costruirmi dei castelli in aria su chi o cosa sia meglio toccare o lasciare a prender polvere.
Leggere, ascoltare, avere cura, sono azioni semplici, alle quali servirebbe sempre saper regredire. Ed esattamente come bisognerebbe sforzarsi di andare alla fonte delle citazioni (perché non è Jovanotti ad aver pensato “se siete felici, fateci caso”, ma lo zio del suddetto Kurt), bisognerebbe sforzarsi (anche se sembra assurdo debba essere uno sforzo) di regredire al dire sempre onestamente e a tutti i tipi di tazze, quanto bene si voglia loro, per qualsiasi motivo, siano esse “solo” utili, oppure “solo” da collezione.
Invidio le persone che sanno sfruttare ciò che trovano di prezioso sin da subito, forse il mio accumulare è una scusa per giustificare la mia paura di rovinare quel che tocco, o per credermi superiore a chi non sa dare il giusto valore alle collezioni. In realtà è solo e soltanto che sono e ho, come tutti, un buco del culo.
D’onde e prospettive,
di punti di vista e visite
siamo.
Amo il pensare di avere,
allevia il saper di non essere,
per poco, per gioco.
Detesto il dimentico me
che assorbe e annulla chi tiene
dentro.
M’accendo di abbrivi brevi
per luci nuove e inattese
sento, pieno
Vorrei poter morder con gli occhi
saziare la fame di nuovo
sempre.
Perfetto non è senza graffi
ma calmo accettar senza sforzi
il tutto, incompleto.
Non serve pretendere sfere
se ogni prova è approssimazione
caduca.
Cadiamo nel crederci meglio
ma primi, sappiamo esser frodi
mentendo, anche a noi.
Se sono, perché son pensato
vorrei saper dare quel caldo
buono,
di chi dona senza pensare
a chi pensa dono ed essenza.
Resto resto.
La resa non sempre è sconfitta
e perdere non è disonore,
aiuta.
E tutta la tua costruzione
è somma di scelte e di buchi
misteri, buffi.
Soffia su semplici vele,
tessile di conoscenza,
solca.
La sola scala al sapere
è il sapere non abbia
mai
fine
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