Una volta sono andato a un concerto con amiche che ora ho quasi perso, col corpo. Siamo stati nel caldo estivo, nella polvere e nel suono. Era uno di quei festival in cui trovi gruppi che non avresti mai pensato di sentire, che ti sorprendono, altri di cui sei curioso e che, magari, ti lasciano un po’ così, e quelli per cui vai, che possono non piacere a nessuno, ma che a te sembrano unici e incredibili.
A quel festival ero andato per vedere gli Incubus, era il periodo in cui gli Incubus mi aiutavano quasi più degli Weezer, e quindi averli conosciuti, lì, è stato un sole inatteso. Non c’è nulla, non accade davvero qualcosa, ti firmano il booklet, sì, magari ti stringono la mano (i selfie sono io, che non li voglio), due parole, ma niente di più, ma quanto vibri?!
Io auguro a chiunque, un giorno, un secondo, di vibrare così.
Ma il problema, come sempre, è l’ascolto.
Da una parte io sbaglio, che se anche son lì aperto, che trattengo il fiato per farmi inondare dal tutto, mi arriva un niente e io esplodo di gratitudine immensa, mentre molti pretendono pieno e restano sempre delusi. Dall’altra chi è sordo alle creste, chi non vede le sfumature, non allargherà nemmeno le braccia ad accogliere forza.
L’educazione, come l’ascolto, è imparare a rispondere rispetto.
Dopo averli conosciuti, visto altri gruppi dal backstage ed esser tornato a godermi lo spettacolo in prima fila, ho sentito un sacco di cose. Sai quei momenti in cui senti, no?! Quelle spirali in cui il tempo rallenta un po’ e ti sembra di pesare meno e di più, perché il mondo, tutto il mondo è lì, in te.
Ecco, quei momenti di cui anche dopo anni ti ricordi ancora il respiro.
Uguale, ieri uguale.
C’è una canzone degli Incubus, che, come tante altre canzoni di tanti, ha uno stop and go, che è uno di quei modi di sorprenderti col suono che sembra assorbito, trattenuto, frenato, prima di ripartire esplosivo. Ma non è esattamente uno stop and go, è più una pausa, ma nemmeno una pausa, è come quei finali che non sono finali… senti il delay di questa nota di chitarra e dello scratch che si spegne, piano.
…
..
.
poi BOOOM!
Ti arriva il mondo addosso.
Ecco, ieri uguale.
Ci sono cose che ti spengono gli accordi, e ci sono canzoni che non ti dicono niente, ci son troppe orecchie che non sentono, ma sorridono ebeti perché l’importante è vedersi e vendersi, non sentirsi.
Io ho paura che il mondo non impari l’educazione, neanche stavolta. Sì, ok, ora qualcuno in più starnutisce nel “popliteo del braccio”, ma una volta passato il pericolo, capirà che il proprio essere asintomatico può esser fatale per chi sente più forte?!
In questi ultimi anni ho perso di vista amiche e persone, ho imparato a correre come una canzone frenetica, una canzone che non son certo mi piaccia, ma che mi porta con sé, ho come mutato l’ascolto.
Ieri ho sentito il silenzio di piombo della paura.
Ma una delle prime cose che ti insegnano in musica, è che le pause valgono quanto le note.
Spero di saper ancora ascoltare, così da riprendere il passo del suono in cui credo, perché questa pausa è uno stop and go, un finale non finale.
Quando le mani stringevano la transenna, il suono sembrava vento forte e l’onda mi muoveva dentro e fuori, quando il delay è andato scemando, perfetto, calcolato, giusto…
io
sul “pardon me”
muto
ho pianto
Più spesso la pace,
ma a volte i volti,
volti pagina e ascolti,
ma il suono è costante
acuto
acufene.
Ma oggi è cupo,
sembra dovuto,
un rispetto in timore
attivo,
ma ignoto.
Nessuna pace,
se imposta,
è reale,
sobbolle,
muta.
Ma il silenzio pesante
porta a chinare capi
incapaci di lume
sordi al suono.
La musica è dentro
sopita, scontata, attutita.
Purtroppo vivrà chi non ascolta,
cadrà chi avrà perso la voce
e di piombo colerà l’incurante,
ma fiero,
spegnersi in facili nulla.
Vorrei esploderti vita
curare rumore
perché il prossimo silenzio
sia pausa contata,
attesa,
voluta,
non giogo
di un gioco
al ribasso.
Il giusto volume
è la risposta
a ogni
mancanza,
l’ascolto
è la domanda
fondamentale.
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